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3.3.09

Malattie in Gravidanza

Malattie in gravidanza: Epatite B, Epatite C ed Aids

Per una donna in gravidanza è di notevole importanza venire a sapere se si è avuto un contatto con i virus dell’epatite B, dell’epatite C e dell’AIDS, in quanto queste malattie possono essere trasmesse al feto:
attraverso la barriera placentare
per contatto diretto al momento del parto
con l’allattamento al seno

L’epatite B, l’epatite C e l’AIDS hanno modalità di trasmissione simili; l’infezione può avvenire con:
trasfusioni di sangue (anche se da alcuni anni il sangue utilizzato viene accuratamente controllato);
scambio di siringhe tra tossicodipendenti;
contatto accidentale con siringhe abbandonate o altro materiale infetto;
rapporti sessuali con partner portatori del virus.


Va specificato comunque che il virus dell’AIDS è meno "resistente" di quello dell’epatite, e dunque relativamente meno contagioso o almeno più facimente sopprimibile attraverso l’attuazione di idonee misure igieniche.

Che cosa accade nella madre e nel feto in queste malattie se vengono contratte in gravidanza?

Per quanto riguarda l’epatite B si manifesta nella donna in gravidanza con caratteristiche cliniche uguali a quelle delle donne normali.
Va precisato che circa il 10% delle pazienti che si infettano con il virus non si sviluppano la malattia ma diventano portatrici sane o affette da epatite cronica attiva; dunque sono potenziali fonti di contagio per altri individui così per il feto, spesso senza saperlo.
Il passaggio del virus attraverso la placenta è possibile per tutta la gravidanza, ma il rischio di contagio per il feto è particolarmente alto quando l’epatite materna si manifesta in forma acuta nell’ultimo trimestre di gravidanza; il contagio è possibile anche durante il parto e con l’allattamento in quanto l'HBsAg è presente nel latte in circa il 70% dei casi, ma la trasmissione per via orale richiede una carica virale molto virale più elevata (la prova dell’avvenuto contagio è la presenza nel sangue del neonato dell’antigene specifico HBsAg o la sua comparsa entro sei mesi).

Molti dei bambini infettati dal virus diventeranno dei portatori cronici, alcuni svilupperanno forme lievi di malattia, rari sono quelli destinati a sviluppare precocemente una forma grave di epatopatia.


Come ci si deve regolare oggi di fronte ad una situazione di questo tipo?

Innanzi tutto tutte le gestanti vengono sottoposte al test per la ricerca dell’HBsAg ed eventualmente di altri "makers" rilevatori specifici per la malattia e per l’epatite C. Tutti i bambini nati da madri HBsAg positive, cioè potenzialmente infette, vengono sottoposti al trattamento preventivo con immunoglobuline e vaccino entro le prime 12-24 ore di vita: l’associazione del vaccino con le gammaglobuline consente di prevenire l’infezione del neonato nel 90-95% dei casi e permette alla madre di allattare il bambino. Per quanto riguarda la madre la prevenzione viene fatta solo con immunoglobuline.

Per quanto riguarda l’epatite C la percentuale di neonati da madri HCV positive che hanno contratto l'infezione è di circa il 5-6%. Questa percentuale aumenta notevolmente nel caso la madre abbia anche l’infezione da HIV (14-17%). Contrariamente a quanto osservato per la trasmissione dell'HIV, nel caso dell'HCV l'esecuzione del parto con taglio cesareo non si è dimostrata utile nel ridurre il rischio di infezione neonatale, così come non è stata dimostrata la trasmissione dell'infezione mediante l'allattamento, che pertanto non è controindicato


Per quanto riguarda l’AIDS, il rischio di trasmissione del virus della madre al feto è stimato intorno al 30 - 50% anche se esistono alcune casistiche con percentuali di trasmissione molto più alte. In alcuni centri vengono sottoposte a ricerca (test) per l’AIDS solo le donne appartenenti alle cosiddette categorie a rischio.

tossicodipendenti;
eterosessuali con molti partner;
politrasfuse;
eterosessuali che hanno rapporti sessuali con individui appartenenti alle sopraelencate categorie.

In altri centri il test viene eseguito a tutte le gestanti. Molte, ma non tutte le donne esposte al contatto con il virus, si infettano diventando così "sieropositive" cioè portatrici sane del virus che hanno nel sangue anticorpi specifici contro il virus.

Gli anticorpi materni passano nel sangue del feto attraverso la placenta: pertanto il neonato di una donna sieropositiva sarà sicuramente sieropositivo, cioè avrà gli anticorpi, ma solo il 15-40% di essi si ammalerà di AIDS. Il parto mediante l’utilizzo del taglio cesareo si è dimostrato utile a ridurre il rischio di contagio per il neonato. Queste donne così possono essere fonte di contagio pur essendo sane e molto spesso non a conoscenza del loro stato; una certa percentuale svilupperà poi, dopo alcuni anni, la malattia conclamata.
La gravidanza può peggiorare il quadro clinico della donna infetta, sia sieropositiva, che già affetta da malattia conclamata. Per quanto riguarda il neonato questo, se infetto, ha circa il 50% di possibilità di sviluppare la malattia conclamata entro due anni.

L’infezione aumenta inoltre di circa tre volte il rischio di aborto così come di diminuito sviluppo fatale e parto pretermine.

La prova del contagio si ha comunque solo ricercando gli anticorpi specifici (IGM) ed il virus nel sangue del cordone ombelicale del neonato nei primi mesi di vita.

In conclusione si consiglia a tutte le donne di effettuare un test di ricerca per l’AIDS (HTLV3) prima di affrontare una gravidanza.


Fonte: www.vitadidonna.it


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AIDS IN GRAVIDANZA E RISCHIO NEONATALE


Trasmissione verticale dell’HIV: fattori di rischio



Da studi retrospettivi nazionali e internazionali appare che l’HIV-1 sia trasmesso dalla madre al feto o al neonato nel 13-48% dei casi, mentre l’HIV-2 (diffuso nel continente africano) sarebbe trasmesso con frequenza minore.

Attualmente in sede di counselling ostetrico non è possibile dare a una donna sieropositiva che desideri avere un figlio una risposta definitiva sul suo personale rischio di avere un bambino infetto.Tale rischio non può essere né escluso né assicurato a nessuna.Hanno trasmesso l’infezione madri asintomatiche, con virus poco invasivi, a bassa capacità di replicazione, senza particolari complicanze ostetriche, e non lo hanno fatto donne in AIDS con gravidanze patologiche e parti distocici. Si possono nondimeno individuare delle categorie esposte a un rischio minore (pazienti “long survival”, con antigenemia p24 ripetutamente negativa, CD4 >500/mm cubi, precedenti figli non infetti) rispetto a donne ad alto rischio (AIDS, antigenemia p24 ripetutamente positiva, CD4 <200/mm cubi, precedenti figli infetti).

Nel contesto europeo e nordamericano, l’infezione da HIV non sembra avere di per sé influenza negativa sul decorso della gravidanza e sullo sviluppo del feto, in particolare per le donne asintomatiche, mentre gli studi sulle popolazioni africane riportano una maggiore frequenza di esiti perinatali sfavorevoli, quali prematurità, ritardato accrescimento intrauterino, mortalità entro le prime quattro settimane di vita.

Le attuali conoscenze non permettono ancora conclusioni definitive riguardo l’impatto della gravidanza sulla storia naturale dell’infezione da HIV materna. La gravidanza impone all’organismo un periodo di immunodepressione finalizzata alla tolleranza del feto, fatto che non sembrerebbe accelerare la progressione della malattia in donne asintomatiche in buon compenso immunitario. Diverso sembra essere per le donne in stadio già avanzato di malattia: in tali casi la gravidanza può compromettere una situazione clinica già precaria, precipitando o aggravando un AIDS conclamato.



Trasmissione verticale dell’HIV: tempo


Il virus HIV può essere trasmesso dalla madre al bambino nel corso della gravidanza, durante il parto, o con l’allattamento al seno. Anche se il virus è stato isolato da tessuti fetali già alla 12a settimana di gestazione, almeno i due terzi delle infezioni in bambini non allattati al seno potrebbero essere state acquisite nell’ultima parte della gravidanza, durante il travaglio o il parto.

Anche le ricerche virologiche e immunologiche depongono per una acquisizione tardiva dell’infezione. Nuove interessanti prospettive per la ricerca sono state aperte da recenti segnalazioni, secondo le quali taluni individui, tra cui alcuni neonati, pur essendo stati esposti al virus HIV non si sono infettati o sono stati capaci di eliminarlo spontaneamente grazie alle caratteristiche del proprio sistema immunitario. Nella trasmissione verticale dell’infezione da HIV, oltre a fattori relativi al rapporto virus/ospite, sono dunque determinanti condizioni propriamente ostetriche. E’ attualmente oggetto di studio, il ruolo della placenta con le sue funzioni di barriera e di trasporto selettivo.

La presenza di cogravidanza (in particolare toxoplasma, CMV, HCV), oltre a comportare un rischio relativo specifico per il fato e il neonato, sembra aumentare la probabilità di passaggio verticale dell’HIV. Determinanti sembrano essere i fattori legati al parto, sia per quanto riguarda la possibilità che si verifichino contatti tra il sangue materno e quello fetale attraverso microtrasfusioni possibili nel corso del travaglio, in particolare se prolungato, sia per le possibilità di risalita del virus e/o esposizione prolungata, come nel caso di rottura prematura delle membrane. L’allattamento al seno costituisce un fattore di rischio per la trasmissione dell’HUV nel neonato indipendente dai fattori pre- e perinatali. E’ stata dimostrata l’infezione in bambini allattati al seno le cui madri avevano contratto l’HIV dopo il parto, ad es. per una trasfusione, e l’allattamento materno aumenta del 14% il rischio di infezione nei bambini esposti in utero. Tale pratica è pertanto assolutamente da proscrivere nei paesi industrializzati, nei quali la disponibilità e la sicurezza di impiego dei latti adattati superano qualsiasi vantaggio residuo dell’allattamento materno; diversa è la condizione dei paesi invia di sviluppo, dove non esistono alternative sicure al latte materno e dove è alta la mortalità infantile per diarrea.



POSSIBILITà DI PREVENZIONE

Terapia con antiretrovirali


Molti interventi si basano sulla convinzione che la carica virale sia il determinante principale della trasmissione.

Il primo farmaco utilizzato a questo scopo è la zidovudina (AZT) in considerazione della sua non teratogenicità, degli scarsi effetti collaterali finora dimostrati nel lattante e nel bambino e delle caratteristiche farmacocinetiche con passaggio transplacentare del farmaco e raggiungimento di livelli terapeutici nei tessuti fetali. I risultati del Pediatric AIDS Clinical Trial Group protocollo 076 (ACTG 076), pubblicati nel 1994, hanno dimostrato per la prima volta come un intervento specifico possa ridurre la trasmissione verticale del virus. Alla luce dei risultati del trial, in USA, in Francia e in molti Paesi europei, la terapia con zidovudina in gravidanza, al parto e nel neonato così come proposto dal protocollo 076 è diventata pratica corrente.

Nei paesi in via di sviluppo, dove peraltro per diffusione dell’infezione e rischio di trasmissione perinatale si concentra la maggioranza dei casi di AIDS pediatrico, ci sono gravi perplessità sulla reale possibilità di adottare lo schema proposto per i suoi costi e per le caratteristiche della popolazione locale. Il trial è poco applicabile in una realtà in cui le gravide giungono all’osservazione clinica per lo più tardivamente, se non addirittura al parto, come in taluni contesti africani. In questi Paesi sono in corso studi volti a valutare l’efficacia della somministrazione della zidovudina con schemi abbreviati, talvolta solo al parto, con o senza terapia al neonato.



Immunoprofilassi


L’infusione di immunoglobuline iperimmuni anti – HIV o di anticorpi monoclonali neutralizzanti in gravidanza e al parto potrebbe ridurre il virus libero circolante e impedire così il passaggio transplacentare del virus.

Oltre agli alti costi di produzione, la preparazione di immunoglobuline anti – HIV richiede la selezione di donatori asintomatici con un alto titolo di anticorpi neutralizzanti, che devono provenire dalla medesima area geografica dei riceventi per la possibile variabilità dei ceppi virali nelle diverse popolazioni. Per risolvere questi problemi è stato proposto di preparare anticorpi monoclonali ricombinanti, ma analogamente a quanto accade per la predisposizione al vaccino, non è facile individuare verso quale epitopo occorra indirizzare la capacità neutralizzante dell’anticorpo.

L’immunoprofilassi passiva inoltre pone alcune questioni non risolte rispetto alle dosi ottimali, ai tempi, alla via (endovena o intramuscolare) di somministrazione.

L’immunizzazione attiva potrebbe stimolare la risposta immunitaria cellulomediata e umorale contro epitopi selezionati del virus, con sostanziale riduzione della viremia. Se si dimostrasse efficace e ben tollerata, l’immunizzazione attiva della madre e/o del neonato avrebbe il vantaggio di perdurare nel tempo e sarebbe molto meno costosa di quella passiva.



Modalità di parto

Il periodo intrapartum è certamente cruciale per la trasmissione verticale dell’HIV, di conseguenza alcuni interventi sulle modalità del parto potrebbero essere determinanti nella prevenzione dell’infezione.( La trasmissione al parto sembra avvenire con modalità diverse: se avviene con contatto diretto con le secrezioni vaginali infette o con i sangue durante il passaggio per il canale del parto, il ricorso al taglio cesareo o la pulizia del canale con sostanze in grado di neutralizzare l’HIV potrebbero essere utili) .



Conclusioni
Attualmente nel mondo i nuovi casi pediatrici di infezione da HIV sono nella quasi totalità dovuti alla trasmissione verticale del virus. Lo studio sulla zidovudina in gravidanza rappresenta un cardine nello scenario delle strategie preventive, ma, poiché non è ancora definitivamente chiarito quando, come e in quali circostanze il virus venga trasmesso, molte sono le questioni irrisolte e ancora lunga la strada da percorrere.

Se in futuro sarà possibile disporre di più di un presidio efficace, il clinico potrà forse orientarsi in base a più elementi (anamnestici, sierologici, virologici, immunologici) su come e quando intervenire scegliendo la strategia ottimale, che non potrà che essere personalizzata. Oggi in Italia bisogna operare uno sforzo perché il test sia offerto a tutte le donne gravide, per garantire ad esse e al nascituro i benefici che derivano dalle possibili strategie preventive e, per le madri, dalla conoscenza della propria malattia in epoca presintomatica.

Il test va proposto in sede di counselling, nel corso cioè di un colloquio che ne spieghi il significato e la necessità per la salute della donna e del bambino, avendo già ben chiaro in mente ciò che andrà detto e come, e a chi eventualmente indirizzare il paziente, nella malaugurata ipotesi di un test positivo.

Fonte: http://www.gravidanzaonline.it/

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